Intervista via mail a Marcello e Nazim dei Caboto
Ciao Marcello,
iniziamo questa intervista con una domanda che per voi può essere anche scontata: perché il nome “Caboto”? Da dove nasce l’idea?
Marcello. Per cominciare, ti dico subito che a rispondere saremo in due: io e Nazim.
Nazim. Diciamo che il primo seme di questa avventura è stato gettato dopo un viaggio e diciamo anche che qualcuno di noi sentiva di dover attraversare un oceano per conquistare nuove terre. A queste necessità il caso ha voluto giustapporre la fascinazione per uno splendido fumetto di un grande illustratore italiano (un giorno spero riusciremo a fargli sentire la nostra musica e magari ad avere una sua copertina), Lorenzo Mattotti. Il fumetto si chiama Caboto, appunto.
Marcello:
Caboto come le circostanze misteriose in cui visse il personaggio filtrato dai colori e dalle ombre di Mattotti, Caboto come la persistenza del dubbio nel riconoscere o tracciare un ritratto, un volto, «la mappa di una vita».
Avete dei suoni veramente particolari che sembrano passare dal jazz al free jazz, dal rock al noise …e chi più ne ha più ne metta! Parlami delle vostre preferenze musicali e di come queste vi hanno formato.
Nazim. Sono un inguaribile melomane, compro un botto di musica e sono anche un agguerrito ascoltatore di Radio3 nella fascia notturna. Posso citare alcune cose che mi hanno folgorato al primo ascolto: Laughing Stock dei Talk Talk, il disco solista di Mark Hollis, l’ultimo pezzo di I’m Happy&I’m Singing’&1,2,3,4 di Jim O’Rourke, Bitches Brew di Miles, Roland Kirk che rifà Ain’t no Sunshine e moltissimo altro. Ci tengo a dire che nella formazione dei miei orizzonti ha avuto molta importanza l’ascolto notturno di Radio3, ed in particolare di Invenzioni a 2 voci ed in generale di tutte le trasmissioni curate da Pino Saulo e Nicola Catalano, che mi hanno fatto scoprire altri mondi possibili.
Marcello. Sono stato il ragazzino che ha scoperto il primo vinile dei Nirvana in un negozietto – assieme a pochi gattacci livornesi tutti spettinati – che poi mi permise di sentire tutta la SST, la SubPop, la Epitaph di “Against The Grain”… e tutte le cose di quel periodo. Ma avevo quattordici anni. Il vero shock fu “In On The Killtaker” dei Fugazi, a sedici. Pensa: ebbi la fortuna di fare un viaggio in Norvegia a quell’età, ed infilai quel disco nella valigia, talmente lo adoravo… In seguito ho però scoperto il rock-ROCK, ho suonato il blues e il garage per tanto tempo, con i miei amici, e tutto questo amo ancora. In università a Bologna, poi, rividi un personaggio che avevo incontrato ad un festival estivo di artisti di strada, insieme avevamo fatto i pazzi. Mi fece conoscere molta, molta musica nuova:
Nazim.
A questo punto davvero ci vorrebbero anche le voci degli altri elementi dei Caboto. La realtà è proprio che ognuno di noi ha un background profondamente diverso.
Quanto tempo della giornata passate a provare?
Nazim. Essendo un gruppo apolide (senese/livornese/reggiano/bolognese) in realtà meno di quanto vorremmo. Proviamo di solito una volta alla settimana, registrando sempre tutte ciò che accade.
Marcello. Poi, ognuno per proprio conto elabora le intenzioni e le porta al gruppo. In casa, la chitarra o il basso, o gli altri strumenti, sono sempre a portata di mano. Questo è ovvio.
Questo ultimo vostro lavoro è veramente bello, può sembrare per alcuni versi “delirante” ma si sente comunque una logica ben precisa in quello che fate. Come siete riusciti a legare tutti questi suoni ed a rendere nello stesso tempo il prodotto così vario e fruibile all’ascolto ?
Nazim. Semplicemente accendendo gli interruttori, attaccando i cavi e lasciando che la musica uscisse come la sentivamo, scia dell’anima disincarnata.
Marcello. Suoniamo da almeno tre anni insieme, e ci “sentiamo”. A volte la coesione è spiazzante, gridiamo. Io però mi sento un po’ il collante per le idee degli altri (eventualmente, spedirò una email apposta per riferire cosa pensano i Caboto di questa presa di posizione!). Mi metto a lavorare affinché quelle idee non sfuggano di mano. Penso che sia il basso stesso ad avere questa funzione di ponte, in un gruppo come il nostro. La spontaneità è la cifra più o meno di tutti noi, ma spesso c’è bisogno di fermarsi sui legami tra le parti. Ecco, era quello che volevo dire.
Con la vostra musica volete trasmettere un messaggio in particolare, o è solo una questione di vibrazioni ed emozioni da comunicare a chi vi ascolta?
Nazim. Frank Zappa diceva: “Informazione non è conoscenza. Conoscenza non é saggezza. Saggezza non é verità. Verità non é amore. Amore non é musica. La musica é il meglio.”
Marcello. Suonare mi fa stare bene. È il mio messaggio personale.
Siete stati distribuiti anche negli U.S.A. con un buon riscontro. Avete intenzione di ripercorrere la stessa strada o mirate ad altro?
Nazim. Come va dicendo da un pò il nostro bassista Marcello, sarà l’acusticotronica, possibilmente da diffondersi su scala più larga possibile, suonando dal vivo a più non posso.
Marcello. Mi piacerebbe in realtà portarmi in giro per l’Europa, la cui anima mi stimola, mi dà sempre curiosità. Oppure il Giappone, che non ho mai visto. Neanche l’America ho mai visto, mi piacerebbe capire New Orleans. Insomma, non siamo così tanto nello spirito di augurarci uno sbarco negli Usa. Nessun sogno di miracoli.
Che rapporto avete con la ‘rete’?
Nazim. Il mio rapporto con la rete oscilla in modo schizofrenico tra quello del ragno ingordo che vuole divorare tutto a quello della mosca avviluppata e preda. Gli altri forse se la godono di più, e comunque sul nostro sito (www.bluebaobab.net/caboto) c’è un disco di sessions in sala prove in formato mp3 interamente scaricabile. Si chiama Freeboto e sarà una serie discografica gratuita a cadenza trimestrale, contentente tutto ciò che passa (e a volte non ritorna) quando proviamo.
Marcello. Io studio la rete. Mi piace la sua a-linearità, la bidirezionalità, la comunicazione orizzontale, conscio dei problemi sempre più inquietanti di controllo della creatività e dell’informazione, o dei censimenti non autorizzati. Mi piace il comunico ergo sum, la moltitudine delle identità, gli ibridi comunicativi, le forme di non-arte. Produco qualcosa, vorrei farne un lavoro.
E con i media in generale?
Nazim. Sono un moderno primitivo, suono un piano elettrico con 8 suoni, non di più, amo le macchine da scrivere, i calamai, l’odore del giornale caldo appena comprato. Ricordo un allievo di McLuhan, tale DeKerckove, che asseriva che l’alfabeto é la prima tecnologia. Concordo, e cerco di essere multimediale usando quella.
Marcello. Ci sono media che inviano dati senza poterne ricevere indietro, gerarchici, dall’alto al basso; e quelli detti nuovi, tendenti al rizoma, che è anche la nostra attuale condizione di pensiero. Mi ritrovo ad essere molto critico con la quasi totalità dei segnali mediatici del primo gruppo; so per esperienze dirette che la fiction non riguarda solo la definizione di un format. La televisione era in bianco e nero, all’inizio: una garanzia di non-realtà che oggi si è persa, a scapito delle signore e dei signori più stanchi.
I giornali sono utilissimi, ma vanno studiati in parallelo.
Quali sono le prospettive del vostro progetto ed in generale per il futuro?
Nazim. Abbiamo iniziato ad utilizzare le voci nei nostri pezzi, e in uno di questi dovrebbe partecipare finalmente anche Simona, una nostra amica che era assieme a noi agli inizi. La prospettiva, in generale, é quella di ampliare sempre di più la piccola orchestra elettrica.
Marcello. Vorrei riprendere in mano le mie conoscenze nel campo del video e creare un’esperienza a più dimensioni tramite la musica futura dei Caboto e le visioni di tanti bravi operatori amici. Nello stesso senso, spero che il gruppo riesca a trasportarsi anche nella produzione di colonne sonore ad hoc, sperimentali o cupe o paradossali.
In quale quadro musicale vi mettereste come band?
Nazim. Bah, col primo disco (e non posso negare l’influenza che hanno avuto su alcuni di noi, io in primis) tutti parlavano dei Tortoise. Ora, con DYGV?, noto con piacere che l’ambito dei riferimenti si é fatto più mutevole e sfuggente. Personalmente sento forti affinità elettive con bands come Jackie-O-Motherfucker, Rollerball, Anatrofobia e Soft Machine. In che quadro rientrano queste bands? Non saprei, davvero (forse in un quadro di Pollock).
Marcello. Se mi è permesso di parlare, poco più ampiamente, di quadro “culturale”, insisto con una sorta di epistemologia del confine (concetto di un filosofo contemporaneo, Silvano Tagliagambe) che non rigetta i criteri di catalogazione, purché nell’ottica di un loro attraversamento omnidirezionale. È impossibile chiudersi in un quadro senza fare poetica. Invece della poetica, è importante continuare almeno ad inseguire la voglia di creare relazioni di vitalità tra le zone. Non ne rimarrà fuori l’elettronica così come la musica popolare.
Il confine è luogo della fuga. Rock di fuga?
Note dell’intervistatore:
E c’è chi dice che i ragazzi, o meglio la gioventù non è colta e sensibile…