Soundrise – Timelapse (2012)

Finisci sul sito dei Soundrise – quintetto triestino capitanato da Walter Bosello – e l’impressione è che dietro questi musicisti, poco più che trentenni, ci sia una qualche grande major: uno spazio dedicato a video e foto, le date dei concerti, un angolo stampa per riportare le recensioni del disco e così via, non manca nulla; niente a che vedere, tanto per intenderci, con le maree di pagine SoundCloud e/o Bandcamp cui tutti – o quasi – i gruppi emergenti ricorrono oggi, identiche tra di loro sia graficamente, sia spesso per pochezza di contenuti.  Poi, facendo un minimo in più di attenzione, leggi anche che il disco è autoprodotto e capisci che dietro i Soundrise – grafica compresa – non ci sono altro che loro, i Soundrise stessi: un bell’esempio di musica totalmente indipendente, che non limita la propria attività alla scrittura, alla registrazione e all’esecuzione dei brani, ma valica i limiti dei compiti ristretti di una band per gestire interamente il proprio universo musicale, comunicazione e vendita del prodotto comprese.

La scelta del titolo – Timelapse – non è casuale: l’album d’esordio ripercorre per intero i primi anni di produzione della band, dal 2004 al 2010, seguendone tappa per tappa l’evoluzione e le successive scelte artistiche. Il continuo mutamento attraverso il tempo è un tema che attraversa tutto il disco: le sonorità dei Soundrise evolvono di continuo attraverso hard rock, industrial, melodic e progressive metal, senza trascurare l’esperienza di band lontane da queste scene, come le sperimentazioni elettroniche di NIN o sound più alternative  e accessibili alla Muse. Dopo un piccolo intro in reverse, come a dirci che stiamo tornando indietro nel tempo, il disco si apre con i riffoni di chitarra e tastiera di Time is mine, di sapore progressive alla Dream Theater. Si prosegue poi con gli interessanti e intricati tecnicismi di Higher Ground, quasi un contrappunto all’omonimo di Stewie Wonder, mente Time to make, Leaving e More sorprendono per le sonorità mature, vagamente anni ’80, quasi adult oriented rock, fornendo un nucleo coerente all’album.

King Time’s dilemma è forse il brano più interessante del disco: dopo un’intro di orologi alla Time di Dark side of the moon, un groove irresistibile per una strofa che scivola in un labirinto di arpeggi di tastiera alla Muse prima maniera, senza trascurare poi atmosfere più aperte e distese nel seguito.  
Il disco si termina nei toni più elevati – e quasi anthem – di We shall break our cage, uno di quei pezzoni da cantare tutti assieme, possibilmente davanti ad un migliaio di persone.

Ascoltando Timelapse  non si può che apprezzare la volontà di raccogliere la tutta la produzione di lungo periodo di una band per realizzare un prodotto unitario, con un fil rouge che accompagni per l’ascoltatore dal momento in cui schiaccia “play” a quello in cui si toglie le cuffie. Di certo i Soundrise sono riusciti nell’intento, e doppiamente: non solo la tematica della temporalità ritorna costantemente e sempre declinata in maniera diversa, ma persino i generi attraverso i quali  la band spazia sono amalgamati con buon equilibrio e naturalità, senza forzature, in stratificazioni successive le une sopra le altre come il prodotto di ere geologiche.

L’unico rischio è però di diventare prigionieri del tempo: le sonorità della band guardano tutte con grande nostalgia al passato, e talvolta non riescono a rielaborare questa eredità per produrre qualcosa di realmente nuovo, come se il peso della tradizione fosse troppo oneroso da portare sulle spalle. Ad esempio, lenti come To be yours e Give up dilatano il ritmo del disco inserendosi in una tradizione di power ballads che di certo non richiede di essere rimpinguata.
Nonostante questo, le qualità – soprattutto tecniche e compositive – della band non sono in discussione: tutto quello di cui hanno bisogno ora i Soundrise è un po’ di audacia in più per rielaborare un suono comunque già maturo, per renderlo più dialogante con la novità e più aperto a sonorità fresche.